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Del “family boulder” o dell’arte della conciliazione in situazioni estreme – seconda parte

La scorsa settimana abbiamo pubblicato la prima parte, ora eccovi la seconda – La redazione di Conciliazione Plurale

 

Quali sono state invece le abilità da sviluppare?

Innanzitutto la capacità di organizzare, tenere traccia delle cose da fare, insieme all’attenzione particolare all’autonomia di mia figlia, con parametri più esigenti di quelli a cui l’educazione contemporanea sembra averci abituato (e con fatiche consistenti, che meriterebbero una riflessione sul perché oggi sia tanto difficile ottenere dai figli comportamenti che, una/due generazioni fa, erano considerati scontati). Ho dovuto inoltre rinforzare la mia capacità di chiedere aiuto, superando qualche sopracciglio alzato o atteggiamento giudicante e persino qualche predica sul fatto che “le donne in passato ce l’hanno sempre fatta da sole”. Col tempo ciò ha permesso di costruire una rete di relazioni d’aiuto, la cui
composizione riflette molto i mutamenti sociali. Mamme casalinghe e nonni dediti solo ai nipoti sono rari e tendono a dedicare il loro aiuto solo alla propria ristretta cerchia familiare; ci si aiuta molto tra genitori separati ed in generale tra nuclei familiari in cui entrambi i genitori lavorano. La logica di sacrificio di sè, sottintesa ad un certo modello familiare, è soppiantata da una logica di mutuo soccorso [5] , di mutuo aiuto in cui tutti, pur nelle diverse situazioni, hanno sia bisogno di supporto risorse di tempo da mettere a disposizione degli altri.

Di questo scenario contemporaneo del mutuo soccorso, sono finalmente e sempre più spesso attori anche i padri: che prendono giorni di ferie in caso di chiusura della scuola, che si organizzano per portare i figli propri ed altrui a fare sport… E dal mio osservatorio (che non pretende di avere valore statistico), rilevo che nelle famiglie in cui entrambi i genitori condividono il carico di cura, la donna mantiene l’impegno lavorativo a tempo pieno o mantiene/riprende percorsi di studio insieme al lavoro (seppure con le fatiche e rinunce di cui ho già detto). Nessuna politica di conciliazione aziendale o di programmazione dei servizi all’infanzia potrà ovviare al fatto che un significativo aumento del tasso d’attività femminile in Italia richiede la generalizzazione di questo fondamentale cambiamento culturale.

Che cosa è accaduto invece nel/del mio lavoro?

Beh, innanzitutto per me è stato necessario un cambiamento radicale: lasciare un’occupazione per cercarne un’altra. Lavorare in una società con sede in un’altra città, di piccole dimensioni e quindi con scarse possibilità di supporto e d’avvicendamento generazionale, era troppo faticoso. Si trattava di un lavoro fatto di progetti a termine, molto complessi, per i quali equilibri e tempi andavano di volta in volta condivisi con una committenza che cambiava ed in cui la sensibilità al tema conciliazione non si poteva dare per scontata. L’altro grosso cambiamento è avvenuto in tempi più recenti ed ha significato abbandonare la forma della libera professione e della collaborazione a progetto per un rapporto di lavoro dipendente, rinunciando a spazi di libertà, d’auto organizzazione e autodeterminazione per una maggior sicurezza; accantonando una certa dimensione simbolica di lavoro come sfida e “avventura” che aveva caratterizzato gli inizi del mio percorso professionale.

Immagine cura di Laura Pucci

Disegno di Emma Tea Silvotti

Anche nel lavoro, ed anche nel nuovo lavoro, è stato necessario sviluppare e applicare una serie d’abilità e modalità di lavoro “adattate”… Usando di nuovo una metafora, le posso sintetizzare dicendo che si è trattato di resistere alla tentazione di fare la solista, o la “primadonna”, per sviluppare capacità di fare e lavorare in squadra. E’ stato ed è importante quindi condividere informazioni, documenti, relazioni, che i progetti fossero condotti in équipe così che i processi possano continuare anche in mia assenza (modalità di lavoro da adottare in modo tanto più stringente quanto più serie le possibili conseguenze sull’organizzazione o sull’esterno dei processi e progetti in cui sono coinvolta, in una sorta di personale “risk management”). Perché farlo? Potrei citare una vasta letteratura organizzativa sulla maggior efficacia e creatività del lavoro in team ma non è questo l’angolo visuale del post. In termini di conciliazione, queste modalità di lavoro permettono di contenere o ridurre la fatica e lo stress personale e quello organizzativo (concretamente: dei colleghi) ed il rischio del carico di lavoro generato da interventi ex post, riparativi [6].

Il quadro degli “appigli” è completo. Potrebbe bastare come guida di sopravvivenza per madri/padri lavoratori e soli. A me è piaciuto, nello spirito della citazione messa in apertura del post, sviluppare un’altra abilità: quella di mettere a tema, di “dire” ad alta voce delle esigenze e dei vincoli della conciliazione. Sheryl Sandberg, una delle “top manager” di Facebook, ha dichiarato in un’intervista per TED TV [7]: “in business, you don’t talk about the fact you are a woman, because they could realize you are one”.

In un articolo on-line di qualche tempo fa, che non ho saputo ritrovare, una donna raccontava come trovasse opportuno nascondere all’azienda le sue esigenze familiari accampando impegni vari, compreso … l’andare in piscina. Io ho cercato di non fare così: faticosamente, non sempre trovando un ascolto empatico e solidale, ho ricordato al (mio) mondo del lavoro che sono una donna, che sono una madre, che il mio orario cambia a secondo delle stagioni e dei servizi che accolgono mia figlia, che ci sono orari prima dei quali o dopo i quali non è possibile fissare una riunione, che ci sono momenti ed eventi nei quali la presenza di un genitore è attesa e che, solo raramente, un impegno lavorativo li supera in importanza. In modo speculare, ho accolto da collaboratori e collaboratrici domande di flessibilità e riprogrammazione delle agende. Senza irritazione o sciocche ironie se un collega manca ad una riunione d’équipe perché sta seguendo l’inserimento al nido del figlio…

Un proverbio africano molto citato dice che serve un villaggio per crescere un bambino, in molti paesi africani e nei pezzi d’Africa che il nostro paese ospita è ancora così. Da noi abbiamo coniato un’espressione molto bella “comunità educante”, che ho sentito tristemente lontana dalla realtà che circonda le famiglie con bambini. Nel dialogo con altri genitori, ed in particolare con le mamme, spesso raccolgo lo sconforto per la distanza tra la retorica italiana sulla “famiglia”, ed in particolare quella sulla “mamma”, e la concretezza di città, società, luoghi veramente “family friendly” (quali se ne trovano in altri paesi europei). Sono convinta che anche le imprese devono, con politiche attive e strumenti ad hoc, ma soprattutto col cambiamento della cultura aziendale entrare a far parte di quel villaggio ideale: nei nostri tentativi di conciliazione, impegniamoci a spendere un po’ delle nostre provate energie affinché ciò accada.

Note

[5] Forse non è un caso che il modello del mutuo aiuto, che improntò le organizzazioni di mutuo soccorso operaie e contadine dell’Ottocento, si rintracci con sfumature diverse in alcune “nuove” risposte ai bisogni che si vanno sperimentando nel mondo: nel modello cooperativo, nei gruppi d’acquisto, nel concetto di “coproduzione” dei servizi sociali o di “recovery” per il disagio psichico, nelle imprese recuperadas create in Sud America…

[6] Nella mia organizzazione non esiste una formale politica aziendale sulla conciliazione lavoro – famiglia. Le soluzioni sono lasciate alla creatività dei singoli e ad accordi informali tra dipendente/responsabile o direzione e può accadere che importanti cambiamenti organizzativi avvengano senza previa analisi dei carichi di cura dei collaboratori. Un modello tanto italiano quanto inadeguato.

[7] Sheryl Sandberg, è responsabile business development, risorse umane e comunicazione di Facebook. Dopo un TEDTalk del 2010 sulla sua esperienza di donna ai vertici di una grande azienda, ha pubblicato “Lean In. Women, Work, and the Will to Lead”, promuovendo in seguito l’omonima fondazione. L’intervista citata  “So we leaned in … now what?”, on line da gennaio 2014 su TEDWomen.

Categorie:Esperienze Tentativi di conciliazione

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